Da qualche anno a questa parte l’intelligenza artificiale si è imposta come grande trend topic del nostro tempo, senza risparmiare nessun settore produttivo. Per rendersene conto (volendo fingere che non sia già evidente a tutti) bastano pochi secondi: è sufficiente digitare “A.I.” e aggiungere parole come “automotive”, “agricolture”, “finance” e via dicendo su qualsiasi motore di ricerca per imbattersi in centinaia di articoli tesi a squadernare le mille ragioni per cui la produzione non possa più fare a meno dell’intelligenza artificiale. L’industria legale non fa eccezione, e la marea apparentemente irrefrenabile della I.A. ha da tempo smesso di limitarsi a lambire soltanto il mondo del diritto.
Tra l’entusiasmo di alcuni e lo sgomento di molti, l’intelligenza artificiale è entrata a far parte del quotidiano di avvocati e altri addetti ai lavori di soppiatto, ma inarrestabilmente. Non solo e non tanto con ChatGPT: dalle applicazioni che utilizziamo per tradurre in “legalese” straniero alle banche dati a cui ci rivolgiamo per rinvenire massime e commenti dottrinali, il metodo predittivo e auto-allenante della A.I. ha attualmente piena cittadinanza nello strumentario del giurista. E menomale, considerando quanto sia sempre più semplice, rapido ed efficace occuparsi di incombenze come quelle appena ricordate, che in passato distraevano tali e tante energie dal cuore delle nostre attività – finendo spesso per culminare in risultati molto meno soddisfacenti di quelli che oggi raggiungiamo in pochi minuti.
Ma torniamo a ChatGPT e ai sistemi similari, noti come di intelligenza “generativa” (intesa, sintetizzando più del dovuto, come A.I. capace di aggiungere qualcosa alla capacità predittiva di cui sopra, e in particolare di riconoscere i pattern propri dei dati di input e di utilizzarli per generare nuovi dati in risposta ai prompt dell’utente): sono sempre di meno gli avvocati – e sono forse prossimi allo zero i praticanti – che non hanno mai fatto ricorso a questo strumento, in effetti così invitante, per abbozzare i propri prodotti. E non sempre senza farsi male: circa un anno fa il mondo degli operatori del diritto leggeva sbigottito dei propri colleghi statunitensi multati per aver speso in giudizio precedenti giurisprudenziali radicalmente inventati da ChatGPT (il c.d. caso “Avianca”).
Ed ecco che comincia quindi a profilarsi il vero limite dell’intelligenza generativa (che nella vulgata finisce oggi per sovrapporsi – quantomai impropriamente – al concetto stesso di intelligenza artificiale): l’output partorito dal sistema informatico, nutrito alle volte di dati imprecisi se non addirittura erronei, rischia di essere totalmente imprevedibile appunto perché “inventato”, più che “generato”, dalla macchina.